giovedì 26 luglio 2007

SE L´AMERICA CHIEDE "PERCHÉ CI ODIANO?"


da La Repubblica del 26 luglio 2007

Gli effetti devastanti delle migliori intenzioni Usa
La risposta dello scrittore Mohsin Hamid, pachistano e musulmano ma con un´infanzia statunitense
Il mio punto di vista sul problema è forse un po´ più strutturato del normale. Da un lato una parte di me si identifica con ‘loro´ e una parte con ‘noi´, come testimone diretto
Gli Stati Uniti sono intervenuti, spesso per ragioni giudicate all´epoca valide, a dar forma ai destini di altri paesi e poi, come nazione, sono usciti di scena


Da un lato una parte di me si identifica con "loro" e una parte con "noi". Dall´altro, crescendo in Pakistan negli anni ‘80, ho avuto occasione di essere testimone diretto degli effetti devastanti che possono avere le migliori intenzioni statunitensi.
Toccate l´argomento del perché tanti musulmani al giorno d´oggi odiano gli Stati Uniti e sentirete i vostri interlocutori autoflaggellarsi, almeno in alcuni ambienti dell´America post 11 settembre. Sono troppo affezionato agli Stati Uniti per unirmi al coro. Queste persone costituiscono la scuola di pensiero del «meritiamo di essere odiati perché siamo malvagi», un approccio semplicistico e inutile. Semplicistico perché esistono 300 milioni di componenti diverse in quel "noi" che è l´America. E inutile perché ignora il tanto di buono che c´è nella nazione.
In parte il motivo del rancore che si prova all´estero nei confronti degli Stati Uniti è legato ad un sentimento contro cui gli americani possono fare ben poco: l´invidia. Il paese più ricco e più potente del mondo attira la gelosia altrui un po´ come l´uomo più ricco e più potente di un piccolo centro attira la gelosia dei suoi concittadini. Lo accompagnerà per quanto egli possa essere gentile, generoso o umile. Ma c´è un altro importante motivo alla base dell´antiamericanismo: il cumulo dei residuati di molti anni di politica estera statunitense. La maggioranza degli americani è all´oscuro di queste iniziative politiche. Nella storia americana sono note minori a piè di pagina. Ma sono titoli di capitolo nella storia di altri paesi in cui hanno avuto enormi conseguenze. Grazie alla sua forza l´America è una sorta di Gulliver negli affari mondiali. Muovendo le dita dei piedi può, spesso inavvertitamente, rompere il braccio a un lillipuziano. Quando la mia famiglia rientrò in Pakistan, fui spettatore in prima fila di uno di questi oscuri episodi. Nel 1980 Lahore era sonnolenta e piuttosto tranquilla, ma le cose erano sul punto di cambiare. Le truppe sovietiche erano entrate da poco in Afghanistan e il governo statunitense, preoccupato per la vicinanza dell´Afghanistan ai ricchi giacimenti di petrolio del Golfo Persico e desideroso di vendicare l´umiliante disfatta subita nella guerra del Vietnam, decise di reagire. Sviluppando la linea dura del presidente Jimmy Carter, Ronald Reagan offrì miliardi di dollari in aiuti economici e forniture di armi sofisticate al dittatore pachistano, il generale Mohammed Zia ul-Haq. In cambio Zia sosteneva i mujaheddin, i guerriglieri afgani impegnati in una moderna guerra santa contro l´occupazione sovietica. Con l´aiuto della CIA, sorsero nelle aree tribali del Pakistan campi di addestramento jihadisti. Ben presto i kalashnikov provenienti da quei campi invasero le strade di Lahore, dando avvio ad un´ondata di criminalità.
Nel frattempo Zia diede avvio al tentativo in corso di islamizzare il Pakistan rendendolo così terreno più fertile per alimentare la jihad antisovietica. Alle danzatrici fu proibito di esibirsi in pubblico, le conduttrici televisive furono invitate a coprirsi il capo e furono approvate leggi limitative dei diritti delle donne. I politici, gli accademici e i giornalisti laici furono vittime di intimidazioni, incarcerazioni e peggio. Un aspetto di questi sviluppi risultava particolarmente sgradevole a noi che entravamo nell´adolescenza, vale a dire l´ira dei gruppi di uomini barbuti che imponevano i loro codici morali, rendendo rischioso uscire con le ragazze persino in una città godereccia come Lahore. In tutto il mondo la gente rimpiange i bei tempi della gioventù. A Lahore noi ci abituammo a rimpiangere il mese prima. Nel 1988, Zia morì in un ambiguo incidente aereo. I sovietici vennero cacciati dall´Afghanistan nel 1989, poco prima che io lasciassi Lahore per frequentare l´università negli Stati Uniti. Quando parlavo della campagna finale della Guerra Fredda ai miei compagni di corso di Princeton, pochi ne sembravano al corrente. A distanza di 18 anni la maggioranza delle persone che incontro negli USA restano sbalordite nell´apprendere di quel passato. Ma in Pakistan, quel periodo è impresso vividamente nella memoria nazionale. Una scorza di residui della politica estera americana avvolge gran parte del mondo. È l´altra parte della risposta all´interrogativo «Perché ci odiano?». Semplicemente perché l´America è intervenuta, spesso per ragioni giudicate all´epoca valide, a dar forma ai destini di altri paesi e poi, come nazione, è uscita di scena.
Sono tante le cose che ammiro degli Stati Uniti. Così quando oggi parlo di quell´epoca e mi imbatto nell´atteggiamento di innocenza ferita che rappresenta la reazione americana più comune, provo irritazione e delusione. È come se il concetto di responsabilità statunitense si applicasse solo all´interno dei 50 stati e io non avessi alcun diritto di farvi appello.
Come può uno come me conciliare affetto e frustrazione? In parte esercitando una critica appassionata. E in parte sperando che le cose cambino, appellandosi, come fece il reverendo Martin Luther King Jr., a quella che è la massima attrattiva degli Stati Uniti, a ciò che sostengono di difendere, a quanto di meglio è insito nella loro natura.
Bisogna che gli americani si istruiscano, dalla scuola elementare in poi, sull´operato del loro paese all´estero. Devono assumere un ruolo più attivo nel garantire che l´operato degli Stati Uniti all´estero non sia semplicemente in sintonia con la realpolitik per come la intendono le élite della politica estera, ma anche con i valori americani per come li intende l´opinione pubblica statunitense.
Perché, nel profondo, questi valori sono validi. Ecco perché anche dove l´antiamericanismo esplode virulento sono amatissime le cose americane. Ecco perché i musicisti rock pachistani ascoltano Jimi Hendrix e i Nirvana, perché le città pachistane pullulano di ragazzi in blue jeans e T-shirt, e perché i pachistani protestano per garantire alla loro Corte Suprema la tutela dalle ingerenze del presidente di cui gode il suo modello ispiratore, la Corte Suprema degli Stati Uniti.
Tutto questo ci porta ad un altro interrogativo, forse più fecondo, su cui gli americani farebbero bene a riflettere: «Perché ci amano?». La gente all´estero non ammira gli americani perché spalleggiano i dittatori, ma perché credono che tutti gli uomini e tutte le donne sono stati creati uguali. Questo concetto non può fermarsi ai confini degli Stati Uniti. E´ un concetto ben più ampio di qualsiasi nazione, indipendentemente dalle dimensioni. Perché l´America sia fedele a se stessa la sua gente deve ampliare la fede nell´eguaglianza in modo da includere gli uomini e le donne di tutto il mondo.
La sfida che gli Stati Uniti affrontano oggi si condensa in una scelta. Gli Usa possono ribadire il loro primato di superpotenza o accettare l´universalità dei loro valori. Nel primo caso aumenteranno il rancore degli stranieri e la probabilità di far ricadere disastri su remote popolazioni e viceversa. Nel secondo caso scopriranno qualcosa che sembrano aver dimenticato, ovvero che il mondo è pieno di potenziali alleati. Io sono uno di questi. Non vivo attualmente negli Stati Uniti ma credo ancora nel loro potenziale positivo. E come tanti che si chiedono come costruire un mondo nuovo e più integrato su fondamenta umane e eque, guardo alla terra in cui io, scrittore, ho imparato a scrivere, e mi permetto di sognare.