mercoledì 23 marzo 2016

Le lacrime della Mogherini

Ai nostri politici piace tantissimo commuoversi in pubblico, piangere a comando. Probabilmente schiere di mental coach gli hanno spiegato che crei empatia con l'elettorato, che ti mostri più vicino alle persone che governi, che raccatterai più voti alle prossime elezioni. Ma commissario Mogherini le sue lacrime non le posso accettare.
Non le posso accettare se erano sincere perché significa che lei non è idonea a guidare una situazione "sopra le righe", il minimo sindacale da chiedere, credo, al ministro degli affari esteri europeo. Le lacrime spettano ad altri, non a un leader che dovrebbe rassicurare il proprio popolo e dirgli "tranquilli, siete in buone mani".

Commissario Mogherini, no, le sue lacrime proprio non le posso accettare


Non le posso accettare se erano finte. Avrebbe dimostrato ancora una volta che alla nostra politica interessano di più i voti nelle urne piuttosto che contare davvero qualcosa. Ma soprattutto immagino le urla di giubilo delle bestie col kalashnikov quando l'hanno vista sulle tv satellitari: "Ecco gli occidentali. Noi gli mettiamo le bombe nelle case e quelli si fanno governare da femmine che piangono". I seminatori di morte si sono galvanizzati quando hanno visto le sue lacrime.

Commissario Mogherini, no, le sue lacrime proprio non le posso accettare.

lunedì 21 marzo 2016

Leggero come una foglia

Credevo che la vita sarebbe stata più bella. In realtà lo era, non lo pensi anche tu? Guarda questo tramonto. Confonde il rosso dell’amore della natura per noi con la calda maglia di lana che indossi. Gli alberi, i rami, le foglie intorno ci avvolgono in un intenso abbraccio, eppure, il vuoto che sento dentro, cancella la gioia che ci ha fatto perdere in questo immenso prato. Lo senti il vento? E’ lontano, ma sta per arrivare. Ci porterà gli odori del mondo, di terre che la nostra anima non ha mai esplorato, l’aroma di spezie del lontano oriente, il profumo umido e rovente dell’erba gialla della savana. Se solo potessi comprendere il significato delle mie parole. Si smarriscono nell'aria alla ricerca di chi le ascolti e tu, che sei al mio fianco, le ignori spregevolmente, ti fai beffa di me con il tuo silenzio irriverente.
Guardami negli occhi e dimmi: non vedi forse il mare, quel lontano maggio in cui, controvoglia, mi hai spinto sul treno? Volevi fare il bagno, nonostante l’acqua fosse gelida. Non fu il freddo a fermarti, quando in costume ti avvicinasti per osservare meglio gli scogli, lì dove finisce il regno di Poseidone. Fu la tempesta, la stessa che ora puoi vedere intorno alle mie pupille. Era ingiustificata da una giornata calda e solare, ma le onde infuriate portarono il panico fra i pescatori, impegnati a mettere in salvo le barche, la vita, combattendo contro i capricci del dio dei mari dietro l’inutile riparo di un grande molo reso gnomo dalla furia della natura. Tu osservasti con interesse, ti preoccupasti per quelle persone, io ti stringevo la mano sussurrandoti parole di fiducia e speranza: il mare si placò, i pescatori ti sorrisero ringraziando silenziosi per la forza che avevi infuso loro. Non sapevano cosa avessi fatto, ma nessuno metteva in dubbio che fosse stato merito tuo se l’universo era tornato benevolo e la pace era ricomparsa sulla terra.
Insomma, cosa devo fare perché il tuo cuore spalanchi le porte e mi renda partecipe della sofferenza che lo tormenta? Quante carezze la mia mano dovrà ancora donarti perché la tua pelle cominci a fremere e dia forza alla tua voce?
Ricordi quando le montagne ci accolsero? Raggiungemmo la cima nelle prime ore del mattino, mentre il sole, uno spicchio dopo l’altro, compariva alle spalle delle creste, accarezzandone la candida beltà, baciando i nostri volti desiderosi di calore. Il gelo dell’ascesa aveva tormentato i nostri corpi per ore ma, alla fine, seduti sulla sommità delle nevi eterne, stretti alla ricerca del nostro tepore, trovammo quel sollievo che solo l’astro portato dal carro di Apollo ci poteva donare. Rammento di essere rimasto in silenzio: ti guardai per ore mentre, assorta, poggiavi il tuo sguardo curioso sul bianco mondo sotto di noi. La luce riflessa dai ghiacci sottolineava il tuo profilo. Seguii con gli occhi la linea del naso piccolo e capriccioso, mi soffermai sulla sensualità delle labbra, scoprii la piccola cicatrice sul lato sinistro del mento. Che strano, pensai, non me ne ero mai accorto. Ti sei voltata verso di me, cancellando con un singolo movimento quanto la luce del cielo aveva appena rivelato. Mi spiegasti che ti eri fatta male cadendo, dall'altalena, eri poco più che una bambina, quando il tuo corpo aveva cominciato a sussurrarti, con estrema timidezza, i cambiamenti che stavano avvenendo dentro di te, quella naturale trasformazione che ti rese prima ragazza, poi donna. Io non dissi niente, tu mi sorridesti. È l’ultima immagine che ricordo di quel giorno: le tue labbra semi aperte poco prima che baciassero le mie.
Il tuo silenzio prosegue senza pietà. Le mie parole non riescono ad aprire una breccia nel muro di nulla che ci divide. Hai una scarpa slacciata: te ne sei accorta? Non credo, come fai di tutto per non accorgerti di me. Ti sfioro la mano, non reagisci; ti fisso negli occhi, mi ignori. Il vento è arrivato e sta tormentando i tuoi lunghi capelli castani. Non c’è spezia nell'aria, non c’è savana tra i nostri animi recisi. L’emozione, che provavo fino a pochi respiri addietro, mi ha tratto in inganno spingendomi ad immaginare un universo che non esiste più, che forse non è mai esistito. Ma ti confesso, mentre l’ultima luce del giorno bacia le tue guance pallide, che riesco a percepire la realtà distorta del nostro amore, questo prato sta per scomparire, un’alta scogliera prende forma in lontananza.
Vedo i gabbiani che, curiosi, volteggiavano intorno alle nostre figure sferzate dal vento. Quale pazzia andare a nord in pieno inverno. Davanti ai nostri occhi increduli si stendeva la linea del circolo polare, tanto invisibile quanto intensa nella sua glaciale maestà. Quando il freddo fu sul punto di farmi cedere, di spingermi a salire sulla due cavalli arancione e tornare nell'ostello dove ci eravamo fermati, tu sollevasti un dito e mi indicasti l’orizzonte. Il calore che si sprigionò nel mio petto per l’emozione ebbe facile gioco sulla gelida stretta che si stava facendo beffa del pesante cappotto di lana. Una famiglia di balene proseguiva placida un viaggio cominciato in chissà quale mare della Terra; l’acqua del mondo aveva accarezzato quelle maestose creature gracili e, dentro di me, si fece largo l’idea di essere più importante perché parte di un creato capace di tanta bellezza. Presi le tue mani fra le mie, mi accorsi che erano fredde, tu stupida avevi dimenticato i guanti nella nostra piccola camera cremisi. Mi misi dietro di te e, avvicinandomi tanto da diventare una cosa sola, infilai le mie mani nelle tue tasche, insieme alle tue, trasmettendoti tutto il calore di cui ero capace. Rimanemmo fermi così, immobili, mentre seguivamo con gli occhi, oltre le tracce del nostro lento respiro congelato dal freddo, l’allontanarsi dei cetacei, certi che sapessero che eravamo lì a salutarli.
Ora neanche questa fotografia del passato riesce a smuoverti. Dov'è finito il tuo maglione di lana, dove l’immenso prato sul quale eravamo seduti a godere del tramonto? Ho la netta impressione che non sia, ormai, solo la tua voce a mancarmi. Io parlo, ma tu non sei più qui, ti cerco con lo sguardo e mi sembri distante: mi odi? Perché hai lasciato la mia mano e mi impedisci di toccarti? E pensare che avevo paura di farlo, di sgualcire tanta bellezza.
Ricordo, sì. L’autunno accompagnava le nostre essenze e la città ci circondava con la sua giungla impazzita. Intorno a noi, milioni di esseri umani vorticavano frenetici alla ricerca di un significato: stolti, sapevano che non l’avrebbero mai trovato. Eppure, solo oggi capisco che nutrivo la loro stessa speranza. Attendevo di comprendere il motivo per cui eravamo uno di fianco all'altra, ma tu mi voltavi le spalle. Pazzia, follia, non so cosa accadde mentre i tuoi passi imperturbabili raccontavano alla mia anima, gli occhi erano chiusi per paura, che stavi andando via da me, che non avremmo più respirato le stesse emozioni. Quando le mie pupille tornarono ad essere ferite dalla luce, videro solo una sagoma lontana, mescolata a tante estranee e crudeli; videro solo i tuoi lunghi capelli, le tue spalle dolci e minute, le tue sottili gambe, che tanto ho amato, che rapide ti portavano altrove. Improvvisamente scomparve il mare, scomparve la montagna; l’alta scogliera, le balene, i gabbiani erano diventati solo la nebulosa ancora di salvezza di un cuore infranto.

Adesso comprendo perché non rispondi. I miei occhi insistono e indugiano sulla riva del piccolo laghetto. I pesci rossi comunali, grati a tanti bambini gentili di essere stati liberati dal loro sacchetto di plastica, guardano con me la tua immagine riflessa, specchio di come il mio amore è in grado di ricordarti. Io, seduto su questa panchina, percepisco il freddo del tardo autunno e, mentre il traffico delle automobili vortica intorno al limite di questo piccolo giardino, cerco ancora di afferrare la tua memoria, non voglio liberarmene: tanto ti ho amata. Strano vero? Credevo davvero che la vita sarebbe stata più bella, che avrebbe fatto di me e te un solo naviglio in grado di sfidare i mari dell’esistenza in tempesta. Invece, una foglia gialla ha appena abbandonato l’amato ramo, anche il loro è stato un amore fuggevole come la primavera e l’estate; si è appoggiata nell'acqua, ed è bastata la sua delicatezza a cancellare la tua figura con piccole onde di malinconia. Forse il nostro amore era leggero come una foglia, ed è per questo che una brezza leggera ci ha fatto volare in alto fino a toccare il cielo. Ma il vento non è eterno, anche lui si deve riposare. La nostra foglia non è precipitata, ma lentamente si è adagiata verso il mondo sottostante. Ha toccato l’acqua qui davanti a me portandoti via e, forse, ora potrò dimenticarti.

martedì 1 marzo 2016

Un figlio di finocchi sarà sicuramente finocchio ma tutti i finocchi sono figli di etero. E intanto le banche...

Fatemi capire. L'adozione del figliastro non si può. La gravidanza surrogata non si può. Il matrimonio fra finocchi non si può. Un figlio di finocchi sarà sicuramente finocchio ma tutti i finocchi sono figli di etero. Adottare bimbi che muoiono di fame all'estero è complicato e costoso. Adottare bimbi negli orfanotrofi (cattolici) italiani è quasi impossibile perché meglio stare con suore e preti (campioni della famiglia tradizionale) piuttosto che con famiglie etero e non finocchie. Ma al primo posto di tutta sta insalata russa dobbiamo metterci il bene dei bambini e delle madri (etero).

Un figlio di finocchi sarà sicuramente finocchio ma tutti i finocchi sono figli di etero

E mentre tutto questo rumore sale e si fa sempre più forte, fanno leggi per le banche, leggi che aumentano le tasse, leggi che riducono la libertà personale, leggi che anziché dare diritti ne tolgono e non fanno lo stesso rumore. No, non capisco.

lunedì 9 febbraio 2015

L'Isis serve alla democrazia


La Giordania annuncia di aver ridotto il potenziale bellico dell'Isis del 20% in 3 giorni di bombardamenti. Anonymous vanta l'hacking di email, siti web, account vari dell'organizzazione criminale parareligiosa che tanto sta facendo parlare di sé sulla stampa occidentale.



Le grandi democrazie occidentali hanno bisogno delle folli dittature alle porte


Se questi sono i risultati conseguiti da un piccolo stato mediorientale e da una rete di hacker internazionale costretta a lavorare nell'ombra, non si capisce per quale motivo le solite "forze del bene" internazionali non agiscano per riportare un po' di calma nel calderone mediorientale. Una settimana di campagna militare, coordinata con gli attacchi dei padroni di Echelon, e il gran califfo dello stato di nulla andrebbe a incontrare le sue 100 non più vergini: qualcuno gli ricordi che di là son già passati i ragazzi di Charlie.

La risposta è una sola. Lo diceva anche Norberto Bobbio molto meglio del sottoscritto: le grandi democrazie occidentali hanno bisogno delle folli dittature alle porte.

Invece il nostro odio e la nostra paura possono diventare utili


I video degli sgozzamenti e lo spauracchio dei missili iracheni "sparabili" fino in faccia alla Merkel ci fanno bene. Ci fanno bene per scandalizzarci, per impaurirci, per nutrire il nostro odio, oggi abituato ad essere indirizzato verso il personaggio dell'Isola dei Famosi che ci sta più sulle balle. Un odio inutile.

Invece il nostro odio e la nostra paura possono diventare utili. Utili per giustificare l'acquisto di aerei da combattimento. Utili per giustificare intercettazioni telefoniche e leggi liberticide. Utili per controllare l'informazione su internet. La nostra paura fa bene alla principale attività umana dopo il meretricio: la guerra.

La crescita della nostra paura è direttamente proporzionale al numero dei video-sgozzamenti diffusi sull'Isis Channel. Insomma, il califfato di nulla è utile come l'aver lasciato che Bin Laden tirasse giù le torri gemelle. Diciamocelo. Non è stata la CIA ma la CIA glielo ha lasciato fare.

Il califfato di nulla è utile come l'aver lasciato che Bin Laden tirasse giù le torri gemelle


Auguriamoci che l'artefatta tensione con la Russia sulla vertenza ucraina cresca in fretta. Almeno torniamo a respirare un po' di guerra fredda e, con la caduta del sipario sugli sgozzamenti, lasciamo che Giordania e Anonymous finiscano il lavoro.

giovedì 27 febbraio 2014

Barcode


Nato per un progetto teatrale il Barcode è una sitcom ambientata all'interno di un bar di San Francisco popolato da strani personaggi.

Sinossi
Il Barcode non è il centro dell'universo ma è il centro dell'esistenza di quattro strambi personaggi che se non fosse per un bancone e un bersaglio per le freccette sarebbero in giro per il mondo a far danni. Il Barcode è raccontato nel diario di Jonathan, svogliato barista che non vi servirà mai da bere, ma vi racconterà di quella volta in cui ha salvato un intero esercito dalla disfatta campale utilizzando una graffetta e una buona mano a poker. Il Barcode è la tana di CJ, agguerrito esattore che ha fatto del recupero crediti la missione di una vita e sul quale potete riporre tutta la vostra fiducia, a meno che non abbiate un debito con qualcuno. Il Barcode è la rima sballata di un verso surreale declamato da Dina, una poetessa dall'oscuro passato e dal presente altrettanto nebuloso, che ha capito che gli altri non hanno capito e che vi metterà a posto con un'occhiata ben piantata fra le scapole. Il Barcode è il destino di Jeff, il DJ che ha organizzato i più stupefacenti concerti del pianeta dimenticando di mandare gli inviti e che per il Barcode ha in mente il party definitivo. Che abitiate a San Francisco, Tokyo o Buttigliera Alta, il Barcode è il vostro bar. Una volta che ci sarete entrati, e vi sarete serviti da bere, non vorrete più andare via!

Il diario di Jonathan Grass

questa notte il caldo ti si appiccica addosso come una femmina di Bangkok. le sue dita scorrono il tuo corpo esplorando le cicatrici di mille giungle, di mille deserti, di mille campi di battaglia dove altri, i tuoi fratelli, hanno lasciato pelle e ossa. tu continui a percorrere la stessa valle, cammini lentamente, un passo un respiro, un passo un battito, senza sapere cosa c'è oltre l'erba alta, senza sapere se stai finalmente scendendo da questa montagna di letame. questa notte il caldo ti si appiccica addosso come una femmina di Bangkok. la lasci fare, è l'unica umanità che riesci ancora a rispettare, avendo perso il rispetto per te stesso, per le azioni compiute, mentre la mano incespica lungo le lenzuola bagnate alla ricerca di un sigaro ancora acceso. dal diario di Johnathan Grass

i due felini mi osservano come si osserva la preda. non corro alcun pericolo ma ricordo l'ultima volta in cui sono stato preda e non cacciatore. tre giorni nascosto sotto una trave di cemento armato crollata. fuori il vento mescolava la sabbia di Kandahar alla puzza dei cadaveri. dentro il cuore suggeriva di rimanere immobile mentre le milizie scorrazzavano in strada falciando tutto quello che si muoveva. tre giorni con il sangue di Sam a incrostare le mani, tre giorni a parlare silenziosamente con Sam dei bei tempi andati, mentre il suo corpo esanime ti giace addosso nascondendoti, salvandoti la vita, e l'unica cosa che hai da bere per sopravvivere è il tuo sudore amaro. adesso do da mangiare ai gatti. dal diario di Jonathan Grass

guardo negli occhi la birra tiepida e immediatamente capisco che si tratterà di una lunga conversazione. le bollicine corrono rapide verso l'alto come giorno dopo giorno le anime dei commilitoni. sento una fitta al ventre ma non è il coltello dell'oste cingalese che affonda nelle mie carni a tradimento. è il fegato che mi avverte che da troppe notti bevo le mie ore di riposo. il mio fegato è uno stolto. non ha capito che resto sveglio perché domani come oggi potrebbe essere il mio ultimo giorno. non voglio passare le ultime ore che mi restano a fissare negli incubi i volti di chi è rimasto nella giungla. ora mi alzo e vado a pisciare. dal diario di Jonathan Grass

Valery è la ragazza che ogni uomo vorrebbe amare, energia vitale che scaturisce da ogni sorriso, l'innata capacità di illuminare anche la giornata più faticosa, la forza di un dolce abbraccio che spazza via la durezza della vita. Valery è la donna che ogni uomo vorrebbe possedere, un corpo disegnato dalle curve, seni pieni da sfiorare, gambe lunghe da baciare mentre ascolti il suo respiro che si blocca a intermittenza per l'estasi. Valery è la moglie che ogni uomo vorrebbe al suo fianco, comprensiva, capace di perdonare, consapevole che un maschio ha bisogno di lei più di quanto lei non abbia bisogno di lui, anche quando vuole stare da solo, anche quando diventa odioso e cattivo, solo perché è uno stupido maschio. Valery è bellissima nella foto che tengo in mano, baciata dalla luce solare nel suo abitino bianco che poco lascia all'immaginazione, ma niente più della santità traspare. Valery vorrei non conoscerti, mentre l'elicottero ci riporta alla base sporchi di fango fino nell'anima, mentre cerco nella poca umanità che mi rimane le prime parole che userò quando ti incontrerò. Sì Valery, vorrei non conoscerti e invece dovrò tornare da te per dirti che Michael non lo farà. E' rimasto indietro e nessuna delle strade che percorrerà da oggi lo condurrà a casa. Dolce Valery. dal diario di Jonathan Grass

sono le due della notte. CJ entra nel bar, il locale è vuoto, ed io lo osservo da dietro il bancone. CJ arriva a quest'ora solo quando la giornata è stata davvero lunga, solo quando l'ultimo debitore si è fatto cercare fra le mille ombre della città. il suo umore è nero, si serve una birra e senza salutarmi si siede al tavolo vicino alla vetrina. nell'aria si respira la calma che impera prima di un attacco, la stasi che ferma il mondo prima dello scoppio di una granata. ma non questa sera, CJ non parlerà e certamente io non lascerò il bancone. improvvisamente entra Jeff ciondolante al ritmo della musica che lo tiene vivo dalle cuffie che ha sempre addosso. Jeff torna da una festa, una festa breve. si blocca appena si accorge che nell'angolo c'è CJ. porta la mano al lettore mp3 ed istantaneamente si spegne la musica dell'universo. CJ guarda Jeff. Jeff guarda CJ. uno sguardo di sfida negli occhi di Jeff. un ghigno soddisfatto sulla bocca di CJ. mi sbagliavo sulla calma di cui sopra, sta per esplodere una granata. dal diario di Jonathan Grass

10 di sera. CJ parla da mezzora lamentandosi di qualunque cosa non sia sotto il suo controllo. Se CJ controlla qualcosa funziona. Se CJ non controlla qualcosa non funziona. Si muove brontolando ad alta voce ciondolando da un tavolo all'altro e intimorendo la clientela così come un capo viet cong spaventa i prigionieri menando in aria la rivoltella. l'unico ad ignorarlo è Jeff preso da un ronzio musicale simile al rimbombo di una casamatta. D'un tratto fa il suo ingresso Dina. Si blocca sulla soglia e osserva la situazione. CJ non la vede, le offre le spalle, e continua la sua filippica sui mali del mondo. Dina fa un balzo in avanti, l'effetto sorpresa è dalla sua, e rapida si porta a un palmo da CJ. Lui si gira e cala il silenzio. Dina alza l'indice e lo punta sotto il naso di CJ, Dina socchiude gli occhi e li conficca dritti nel cranio di CJ. Sun Tsu diceva: "combatti solo le battaglie che puoi vincere". Non so se CJ abbia mai letto Sun Tsu ma senza proferire parola fa un passo all'indietro e si siede sulla sedia più vicina. Dina gira i tacchi ed esce dal bar. dal diario di Jonathan Grass

avete mai ascoltato il silenzio? non vi prendo in giro. l'avete mai davvero ascoltato? è assordante. stai lì seduto al centro del bar, fossero le alture del Golan sarebbe uguale, e l'aria spessa come il catrame ti si stringe addosso. sai che da un momento all'altro sta per succedere qualcosa ma sai anche che quel momento potrebbe essere fra una fr azione di secondo o fra una settimana. ciò che conta è stare all'erta. poi entra lei, Dina, il suo passo spedito, l'eleganza da gazzella, e si siede a uno dei tavoli. il silenzio si sgretola appena poggia i suoi occhi su di te, occhi penetranti, occhi da Dingo a caccia. sapevi solo che saresti morto per essere guardato da quegli occhi ed ora ti sembra di non aver mai vissuto prima. "io e te dobbiamo parlare" dice. improvvisamente il tuo nascondiglio da cecchino diventa un richiamo per gazze, credevi di avere il silenzio in pugno ma invece capisci che ti mancavano solo le parole. "hai ragione" ribatti "abbiamo molto da dirci" e ti alzi per camminare verso di lei, per essere divorato dal dingo, ma non importa. dal diario di Jonathan Grass

le pale del ventilatore ronzano lente sopra il letto mentre il sole entra a spicchi dalle persiane malandate. la penombra lascia poco all'immaginazione e i miei occhi indugiano pigri sulle superfici coperte dalla polvere, su una specchiera rotta, sui nostri corpi nudi. c'è odore di sudore nell'aria, sudore di afa, sudore di passione. riconosco me stesso mentre le narici scoprono curiose anche l'odore della sua pelle, bagnata e addormentata. mi giro sul fianco: cosa ci fa una dea distesa vicino a me? percorro con gli occhi il suo corpo, le dita dei piedi piccole e affusolate, la linea dei polpacci in parte nascosta dalle lenzuola, le lunghe cosce che promettono felicità ad ogni centimetro fino a giungere al ventre. i suoi seni si muovono lievemente al ritmo lento del respiro e infine raggiungo il collo, il mento, la bocca. il desiderio di baciarla si fa pressante ma non voglio rovinare la perfezione, l'unicità di questo momento, il regalo non meritato che la vita ha fatto ad un uomo. poi la bocca si muove e diventa un sorriso. salgo ancora con lo sguardo e incrocio i suoi occhi. si è accorta di me. mi afferra la mano e la porta al seno destro. l'ultima giornata di Ha Noi. domani si parte per il nord, ma non adesso. dal diario di Jonathan Grass

ed è la notte che viene a fare le domande. mentre cammini lungo un canale illuminato da lampioni morenti, mentre sei disteso nel letto tra lenzuola e sudore. il giorno è gentile, ti lascia scampo, e mille scuse per fare finta che non vi sia nulla da chiedersi: un lavoro da consegnare, un luogo da raggiungere, un palazzo che dipinto dai colori del tramonto ti convince di essere disteso nel prato vicino a casa e non su un marciapiede di Saigon. deve essere il silenzio, deve essere la solitudine. il silenzio non lascia spazio alle scuse, ti obbliga a rispondere. e allora pensi...... all'opportunità avuta lasciata andare per paura, all'amico perduto per il troppo orgoglio, al padre che non senti da anni perché non trovi le parole per perdonare, alla donna che hai amato ma non hai mai baciato. tutti prima o poi dobbiamo fare i conti con la notte. dal diario di Jonathan Grass

rimango seduto sull'uscio mentre il vento mi sputa in faccia questo caldo irrespirabile. la giornata non prospetta emozioni se non qualche auto che passa incerta davanti al Barcode sfidando l'asfalto rovente. solo una volta ho sentito la pelle bruciare tanto, in un campo profughi in Tunisia, un paio di vite fa. d'un tratto sento qualcuno al mio fianco, si siede sul gradino, è Dina. restiamo in silenzio fissando insieme il vuoto mentre comincia il nostro dialogo senza parole. poi mi spiazza completamente, china la testa e la poggia sulla mia spalla. difficile dire cosa le passi per la testa. un gesto d'affetto? un grido d'aiuto? "come stai?" le chiedo. "c'è un cadavere dietro il frigo dei gelati. vado dentro a pulire" risponde. poi si alza veloce e scompare all'interno. sono quasi sicuro che mi abbia sorriso. dal diario di Jonathan Grass

la vita è fatta di attimi, tutto sta nell'apprezzare quelli giusti e dare poca importanza a quelli sbagliati. e succede che una sera al Barcode si manifesta l‘attimo perfetto, quattro amici che, nonostante tutto, si sostengono a vicenda perché l'obiettivo non è arrivare in un posto o ottenere qualcosa, l'obiettivo e farlo insieme. e allora si fottano gli uomini del monte, le pesche coi moscerini, i bombi Alvaro o i come cazzo è possibile che da qui non se ne esca perché la luce non abbandona il Barcode. esserci stati, tutti quanti, è l'unica cosa che conta. e domani la luce del sole ci ricorderà che è stata una gran serata. dal diario di Jonathan Grass

napalm, napalm ovunque... e anche oggi abbiamo disinfettato la cucina del Barcode. dal diario di Jonathan Grass

venerdì 21 febbraio 2014

Italia, penne e renzusconi


Cara mamma.... come va in Italia?!
Beh, che dire, nulla di nuovo. Hai presente quel Fonzie, Renzie.... il grullo toscano, quello che riesce a dire 357 parole al minuto senza prendere fiato nemmeno nel minuto successivo? L'hanno messo a fare il Primo Ministro anche se lui diceva che per farlo avrebbe prima vinto le elezioni. Ho scoperto che lo soprannominavano "il bomba" già hai tempi delle medie. No, non perché sia grasso ma perché ne spara una più grossa dell'altra. Ormai quando va alle trasmissioni televisive nella stanza accanto c'è una squadra di artificieri pronta all'intervento. Cosa? No, non ci va a Sanremo. Hanno già interrotto per due finti aspiranti suicidi con le babbucce di Prada. Figurati se possono rischiare di sgomberare l'Ariston perché quello, senza prima avvertire, ti spara che ti completa la Salerno-Reggio Calabria in tempo per le ferie 2014.
Pensa che dice di avere già la squadra di governo pronta, c'ha lavorato un paio di giorni. Bah, vedremo. So che ha confermato alcuni ministri del governo precedente, quello di Padre Letta. C'è la Bonino, Lupi, Lorenzin, Or..... Cosa mamma? Si hai capito bene la Lorenzin. Lo so che non è laureata ma in Italia funziona così. Questo è il paese dei sogni, è quel paese dove se c'hai una laurea in medicina emigri all'estero ma se invece c'hai un diploma allora puoi fare il Ministro della Salute.

Il Grillo Parlante? No mamma. Ti ho già spiegato che non ha niente a che fare con Pinocchio. Non è il Grillo Parlante, cioè, per parlare parla, anche troppo. Ma questo Grillo di nome fa Beppe. C'è di buono che 'sta settimana appena passata è riuscito a zittire "il bomba". No mamma. Non aveva argomentazioni migliori. Ha solo urlato più forte. Pensa che ci son quattro del suo partito, scusa movimento, che han detto che è stata un'occasione sprecata. I suoi seguaci stanno pensando di mandarli democraticamente affanculo. Prima di dire una cosa simile avrebbero dovuto interpellare il "popolo del web" ma non avendolo fatto allora dritti affanculo. Ti ricordi quel teorema secondo cui il Furer ha sempre ragione e non va mai criticato? Ecco, aggiungici solo molte parolacce.

Cosa mamma? Non hai più sentito niente di Berlusconi? E' morto? No mamma. Sembrava morto. C'è un serpente marino che fa più o meno la stessa cosa. Sta sul fondo del mare e finge di essere morto. Allora arrivano i pesci e cominciano a dargli dei piccoli morsi. Si sentono sicuri, pensano che ormai un lauto pranzo sia servito. E allora quella PAM, a "bomba" gli salta addosso e se li pappa per altri vent'anni. No mamma, cosa c'entra Renzi. Ho detto "a bomba" non "il bomba".

mercoledì 19 febbraio 2014

Beppe Grillo e la tempesta di parole


Caro signor Beppe Grillo, il signor Matteo Renzi non sarà un gran simpaticone, probabilmente manterrà un decimo delle promesse fatte, si è più volte contraddetto annunciando di andare a destra e andando poi a sinistra e viceversa e probabilmente, proprio come sostiene lei, farà gli interessi dei soliti poteri forti alla faccia di noi italiani. Per giunta è segretario del PD, partito che ha più scheletri nell'armadio di quanti sono gli armadi di Arcore. Al contrario il suo Movimento Cinque Stelle, non lei, è portatore di ideali sinceri, grande entusiasmo e voglia di cambiare di tante gente stufa dello schifo che è stato. E' forse per questo che lei continua a farne il guastatore? Lo spettacolino da piazzista televisivo, santone telefonico, urlatore di borgata che ha inscenato in diretta streaming a Palazzo Chigi è stata una delle cose più stupide che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi. Le do atto di aver zittito Renzi, uomo che non riesce a restare in silenzio in pubblico per più di 10 secondi. Ma lo ha fatto maleducatamente e con una violenza verbale che non appartengono a chi vuole cambiare le cose ma solo all'arroganza del potere. Parafrasando Voltaire sostengo il "non sono d'accordo con quello che dici ma lotterò fino alla morte perché tu possa dirlo". Il suo zittire l'avversario vomitandogli addosso merda e parole ha sortito in solo effetto: censurare un'opinione differente. E la censura non è del cambiamento ma solo delle dittature. I casi sono due: o le sue argomentazioni, signor Grillo, non reggono il confronto con quelle di Matteo Renzi (non credo); o lei ritiene i suoi "pentastellati" degli emeriti coglioni pronti a cascare nelle spire dell'avversario ammaliatore. Chissà cosa avrebbe mai potuto dire il primo ministro in pectore di così grave da non poter neppure proferire parola. Veniamo alla domanda che le ho posto più su. Perché continua a fare il guastatore del suo movimento? Di cosa crede si parlerà domani? Delle argomentazioni con le quali ha intelligentemente smontato Renzi o del culo che gli ha piazzato in faccia urlando. Ha proprio così tanta paura di rimanere senza lavoro? Meglio continuare a castrare i suoi ragazzi vero piuttosto che lasciarli camminare con le proprie gambe? Torni a fare il comico che a giocare al politico mi ricorda solo il dittatore megalomane di un piccolo stato caraibico.